Wednesday, November 22, 2006

Pensavo fosse Zimbabwe invece era un baobab

Mi preparavo ad un weekend in compagnia di uno scozzese, un ungherese ed Enrico in Zimbabwe. Tutto era pronto: set per dipingersi di nero alla vista di Mugabe, fucile col silenziatore per gli elefanti, casco da colonialista, copia di un libro di con foto di Hemingway che va a caccia nella savana. Già dei sentori di sfiga aleggiante si stavano addensando a partire dalla sera prima, quando ci chiamano i due foresti e ci informano che lo scozzese ha male al pancino e non vengono.

Dopo una settimana passata a contabilità, io ed Enrico decidiamo che è essenziale per la nostra salute mentale recarci in Zimbabwe, dove ci aspettano due giorni di parco naturale, relax con eventualmente lodge con piscina e casinò. Per pulirmi la coscienza davanti al santo protettore dei cooperanti all’esetero, ho deciso che del casinò non me ne può frega’ di meno e guarderò Enrico sbancare le casse del paese, mandandolo ancor più in bancarotta.

Ma alle 7 del mattino di sabato ecco l’amara sorpresa: il bollo per uscire dallo Zambia è scaduto da 10 giorni….sorridendo perché tanto incazzarsi non serve a niente, decidiamo sul da farsi.

Enrico mi informa che le alternative sono due: piscina, ma il cielo non promette bene, oppure andare non molto lontano da casa nostra a vedere prima la diga sullo Zambesi costruita dagli italiani negli anni’50 e poi un particolarissimo baobab che pare che sia monumento nazionale. Incuriosito dallo scoprire una delle mitiche grandi opere e cosa deve avere di speciale un albero per entrare a far parte del patrimonio nazionale, mi riscopro ingegnere civile e botanico (avevo preso questa specialità agli scout) e ci avviamo, di buon mattino, verso la diga.

Sono le otto appena passate e non c’è ancora quella cappa di caldo che attanaglia ormai da giorni la regione. Dovrebbe già essere iniziata la stagione delle piogge ma, nonostante in cielo si aggirino grossi nuvoloni, non scende una goccia e l’umidità è insopportabile. La pianura padana ad agosto è stato un ottimo training, per fortuna.

La diga è stata costruita sul confine tra Zambia e Zimbabwe. E quindi prima di arrivarci dobbiamo andare a due diversi sportelli della frontiera. Enrico conosce tutti, visto che ha già fatto la guida ad altri qui. Poi essendo bianco, la seconda volta che ti fai vedere, già tutti sono amiconi. Enrico mi spiega che, soprattutto i funzionari dell’esercito e della polizia, è meglio farseli amici prima possibile, magari con favori di vario tipo. Niente di ché, basta una capra, un sacco di riso, meglio un prestito tramite il progetto. Tanto ripagano perché altrimenti fanno una figuraccia davanti ai colleghi. Marketing di tranquillità, lo definirei.

Ci avviamo verso la diga. Immensa e con un paesaggio molto bello. Da un lato il lago Kariba, formatosi appunto con la costruzione della diga e dall’altro lo Zambesi che continua placido (per ora) verso il Mozambico. Il lago ovviamente è stato formato a discapito delle popolazioni locali, quindi immaginatevi gli esodi e le migrazioni forzate che hanno dovuto subire le popolazioni aldiquà e aldilà del confine. Ci sono ancora progetti di sviluppo, dopo quasi 50 anni, che vertono sul grande trauma che queste popolazioni continuano a soffrire, a causa dello spostamento subito. C’è da domandarsi quanti di quelli che c’erano all’epoca ancora sopravvivono.

Torniamo indietro e solita trafila burocratica.

Passiamo davanti a casa e carichiamo su Clara e Roberto, i due medici che fanno lo stage allo sfigatissimo ospedale locale e ci dirigiamo fuori “città”, meglio fuori campagna., visto che Siavonga è considerata città da chi ci abita e borgo dagli abitanti della capitale, ma in effetti non sarà più grande di Selvazzano.

Dopo una mezz’ora di strada asfaltata ci inoltriamo in uno sterrato ai cui lati vi sono decine di baobab e altri alberi maestosi. Il paesaggio, piatto e secco, è costellato da termitai. Decine di montagnole di terra rossa, solitarie o appoggiate ad un albero.

Non so se avete mai avuto al fortuna di vedere un baobab, ma i rami iniziano circa a 3-4 metri dal suolo. Prima il tronco è grosso e gibboso, poi i rami, grossi come i tronchi di molti alberi che crescono vicini, si aprono e si innalzano per molti metri. Ma è la grandezza del tronco ad impressionare. E poi i Baobab hanno mille forme. Ricordano un po’ i fiocchi di neve: non ne puoi vedere due uguali e spesso nemmeno simili.

Passiamo vicino ad un paio di villaggi e poi, fuori da uno di questi, intravediamo il “monumento”. Un enorme, immenso Baobab che si è letteralmente sdraiato sopra un altro e ora crescono insieme. Saliamo sopra. Il tronco è come pietra, di una durezza incredibile, pieno di venature (e anche, purtroppo, di qualche scritta). Attorno al tronco si piazzano un po’ di ragazze con dei bambini. Pensiamo che vogliano soldi, ma per una volta desiderano solo un passaggio nel villaggio vicino per un paio di loro. Ma se succede un incidente o qualcos’altro, l’assicurazione non paga, quindi gentilmente rispondiamo che non è possibile. Silenziosamente e sorridendo se ne vanno.

E rimaniamo finalmente noi 4. Silenzio e spazi aperti. L’Africa che mi mancava e che ho, finalmente, ritrovato.

1 comment:

Claudiona said...

sono passate quasi 3 settimane dalla tua partenza e finalmente assaporo tutto quello che hai scritto..l'unico modo per mettere una pezza alla mia assenza a padova per la festa d'addio
è venire a abbracciare un baobab con te..e altre 20 persone!mi manchi