L’avventura lavorativa nel vecchio mondo inizia con una gelata mattutina a Padova, ora terrestre 6.00 del 7 novembre 2006.
Intirizzito, ma confortato dai 30 e passa gradi che mi aspetto di trovare a Lusaka, mi avvio in compagnia di papà Angelo, fratello Mele, la valigia e il baule, un mostro verde con bardature d’oro da 50 kg, gentile concessione del CeLIM (che, per chi non lo sapesse ancora, è la Organizzazione per cui lavorerò i prossimi 2 anni…speriamo!).
Entrata in autostrada ore 6.30 e arrivo a Milano ore 9.45. Poi avvicinamento progressivo ma con ottimo navigatore (Angelo) e passeggero narcotizzato (Mele).
Ultimo cappuccio al bar e poi imbarco di ulteriore passeggero (Paolo, in missione per conto del CeLIM).
Volo alle 14.45, arrivo in aeroporto alle 11.30. Diciamo che eravamo un pelo in anticipo, nonostante si fosse parlato del caos dovuto alle nuove regole UE (niente liquidi nel bagaglio a mano), l’unico ritardo è stato quello di Alitalia. 40 minuti fermi sulla pista e non si sapeva perché. Poi ti chiedi come mai stanno fallendo! Intanto ci aveva raggiunto anche Davide, ovvero il mio boss e plenipotenziario della ONG, uno di quelli che sono bravi un po’ in tutto e ricoprono una funzione di jolly all’interno delle Organizzazioni: uno stipendio (da fame, spesso) ma 2000 ruoli diversi (che io sappia, lui è un po’ selezionatore, formatore, coordinatore dell’ufficio progetti, fa i monitoraggi etc. E ha 4 figli, nel tempo libero che gli rimane. Il fatto che sia completamente calvo potrebbe anche trattarsi di un preoccupante sintomo psico-somatico).
Arrivo a Parigi con segnalazioni fatte da culo e addetti maleducati: inutile dire che ogni tanto partiva qualche “Poporopopopopo!”, tanto per fargli capire che i Campioni del Mondo siamo noi, francesi di m…da!
Poi il volo: Parigi-Johannesburg 12 ore. Eravamo su un volo diretto in Sud-Africa, compagnia aerea South Africa Airways e gli unici neri erano praticamente solo le hostess e gli stewards. E allora ti domandi: ma forse non è che un minimo di apartheid, almeno economico, c’è ancora?
A Johannesburg sosta di 3 orette, per poi ripartire e atterrare a Lusaka. Ora locale 12.30, un ora avanti rispetto all’Italia.
Primo scoglio, il visto. Costo 25 $, siamo in tre =75$. Davide allunga all’addetto (che intanto ci fa i complimenti per avere vinto la Coppa del Mondo…Ma vieni!) 100$. Il resto è dunque 25$. Ma all’ufficio non hanno i 5$. Considerando che qualsiasi visto costa 25$, non sarebbe utile fare una scorta di banconote di 5$, vero?? Allora suggeriamo all’addetto che può darci il resto in kwuacha, la moneta zambiana. Niente, dopo gli sballano i conti. Allora alla fine aspettiamo che qualcun altro paghi con 5$, ma tutti hanno 50 o 100 e la fila di chi aspetta è oramai più lunga di quella dei pagamenti. Alla fine Davide è costretto ad andare in banca, cambiare i 100$ in banconote di taglio più piccolo e finalmente pagare.
Fuori dall’aeroporto ci è venuto a prendere Gianclaudio, coordinatore Paese Zambia (il capo, per gli addetti ai lavori), vicentino di Bassano, mascella alla Terence Hill, pantalone verde alla Franco Franchi.
Ci avviamo su una Toyota Land Cruiser stile Overland anni ’70 verso casa sua.
Inizio a respirare di nuovo il sapore dell’Africa, forte e denso come l’avevo lasciato 2 anni fa. La terra è ancora arida, ma la stagione delle piogge è appena iniziata e verrà anche qui il tempo delle distese verdi.
Il sole picchia forte (qui è estate) e ci sono almeno 30 gradi. Arriviamo a casa di Giancludio, che abita in una deliziosa casetta di proprietà di una delle ministre del governo che, essendo senza portafoglio, affitta le sue proprietà per sopravvivere, mentre lei vive in una villa da qualche parte di Lusaka.
Ci accolgono Sabrina, la moglie, e Nicolò, uno di quei deliziosi bambini che siete contenti di avere in giro se non sono figli tuoi. Infatti non sta mai fermo, urla e corre in giro, insomma uno di quei bambini che negli Stati Uniti tranquillizzerebbero con pastiglie e droghe, perché l’imperattivismo è una sorta di malattia. Mah…
Nel pomeriggio mi riposo e scrivo un po’, poi alla sera andiamo a mangiare al cinese (sic!) con altri volontari e cooperanti della ONG, riunitisi in città per la riunione plenaria che si è tenuta stamattina.
Conosco nell’ordine Monja, che si occupa di un progetto di educazione a Lusaka, Luciano che fa un dottorato e Servizio Civile in una zona sperduta a Ovest (Far West nel vero senso della parola), dove si occupa di un progetto di riforestazione, Michele e Ilaria, coppia di Bocconiani che sono migrati a Sud, vicino alle cascate Vittoria e inoltre il vice console e sua moglie. Ovviamente per fare il vice console in un paese dove la prima è l’inglese, nel CV non deve esserci scritto che l’inglese lo sai, ma almeno un corso di lingua per eliminare un pesantissimo accento della brianza e ampliare un minimo il vocabolario, nei 10000 euro al mese che gli passano potrebbe essere incluso, vero no?? Vabbè, la prossima volta mi candido come interprete all’ambasciata italiana a Tokyo, che magari mi prendono anche.
Cibo ottimo e chiacchiero con Luciano, che oltre ad essere appassionato di fotografia, mi sembra un ottimo compagno di viaggio per il Safari natalizio.
Notte passata a casa di Monja, nel territorio della diocesi, sotto la vigile ombra della cattedrala di lusaka, un enorme container verde (avete presente i terremotati dell’Umbria?).
Il giovedì ci si sveglia con calma alle 9, e poi mi faccio scorrazzare in giro da Luciano che deve andare a parlare di piante medicinali all’università.
Conosciamo Cecilia, insegnate di Medical Geography, una zambiana ben impostata, alla mano con camicetta azzurra e gonna jeans slavata, che alla fine della giornata ci dà il suo numero di cellulare dicendo di chiamarla anche per fare 2 chiacchere. Come le nostre docenti, right?
Nella mattinata ho anche l’emozione di guidare per la prima volta in Africa. Mezzo di trasporto: pulmino Toyota bianco panna. Ah, in Zambia si guida all’inglese, quindi “all’incontrario” rispetto all’Italia. Bene, mi dico, non sarà difficile. Infatti giungo sano e salvo a casa di Gianclaudio, rendendomi conto solo dopo che ho fatto 8 km invertendo le frecce. In effetti mi domandavo perché ad ogni incrocio mi suonavano.
A pranzo pesce fritto in ristorantino. Economico, ma non come mi aspettavo. L’Etiopia e il Perù il mio portafoglio è meglio che se li scordi al più presto.
Pomeriggio con incontro con la THPAZ (Traditional Health Practitioners Association of Zambia), né più né meno una lobby dei guaritori, stregoni e medici tradizionali dello Zambia. Cosa direbbe Bersani? Liberalizzerebbe come farmaci da banco le unghie di facocero per curare i reumatismi o la papaia cotta contro al malaria? In effetti è a tutti gli effetti un gruppo lobbystico. Alla domanda di Luciano se ci fosse la possibilità di avere dei volantini o pubblicazioni che specificassero le qualità delle singole piante, il vice-direttore dell’associazione ha sussurrato: mio nonno le ha tramandate a mio padre, mio padre a me e io lo farò a mio figlio. Punto. Chiaro direi. Peccato che poi si lamentino che la medicina tradizionale si sta perdendo, che viene soppiantata dai farmaci occidentali etc. Ma se rimane tutto fra pochi intimi (anche se l’associazione conta 40.000 membri) come si fa? Ovvio che si tratta di un ragionamento da ragazzo occidentale, niente di più.
A sera andiamo a cena con Luciano e Delia, responsabile di un progetto che si occupa di HIV per una ONG inglese, al ristorante indiano. Mangiamo come dei bufali, perché non conoscendo la grandezza delle portate, ovviamente ordiniamo troppo. Serata piacevole e discorsi da bar, ma divertenti, tipo di cosa parlano le donne e cosa è stata la cosa più spiacevole che vi è successa durante una notte di sesso. Sex and the City missione Zambia.
Dialogo tipo:
Delia: il peggio è stato quando uno si è acceso la TV dopo aver “finito” per vedere le partite di calcio.
Marco: Beh, spero che dopo lo avrai scaricato subito!
Delia: No. E’ stato il mio ragazzo per 10 anni.
Marco: Auguri!
Stamani poi c’è stata la fatidica riunione plenaria. Tutti i volontari presenti, compresi Enrico, che mi farà una decina di giorni di training di microcredito a Siavonga, sul lago (scordatevi che faccia il bagno perché non voglio finire come Capitan Uncino e il coccodrillo).
Si è parlato di un po’ di tutto, dai soldi ai rapporti con i partner locali, che non sono ragazzi e ragazze del luogo con cui i volontari e cooperanti si accompagnano, ma coloro i quali sovvenzionano il progetto o si lavora più strettamente. Il mio sarà la Diocesi di Monze, dove spero di incontrare la famosa monaca di Monze…ehehhe. Battutone!
Sono sopravvissuto all’incontro anche perché non avendo praticamente nulla da dire, il mio progetto ha fatto la figura di quello con meno problemi…per ora.
Poi pranzo all’ombra del gazebo e con 30 gradi abbondanti. Special Guest: la soppressa veneta che papà mi ha inserito in valigia. Grazie Pa’, ha avuto un successo aspettato!
Inutile dirvi che qui mi sento a casa. la gente ti saluta (sei bianco ok, ma un sorriso e' sempre ben accetto), ci si ferma a fare 4 chiacchere ed e' bello cosi'. le relazioni umane ti fanno "perdere" tempo che useresti per cosa? lavoro, certo. Ma non dimentichiamoci degli altri, ecco qui hai la sensazione di non essere un numero sulla metrepolitana. Grazie Zambia.
Vi bacio tutti (qualcuno di più) e alla prossima!